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HEIMAT - Gli anni ruggenti (1967-69)

Il penultimo sorso e' sempre il piu' dolce. L'ultimo viene spesso irrimediabilmente inquinato dalla consapevolezza che il piacere che si prova non e' rinnovabile per via di quella faccenda eraclitea di fiumi e di tuffi (e lo sa bene Nico, che accampando scuse sempre piu' improbabili e' riuscito a non unirsi a noi nemmeno una volta per non guastare il ricordo della *sua* HEIMAT).

Siamo arrivati a meno uno, insomma. La vetta e' a portata di mano e a voltarsi indietro le pendici della montagna sembrano ormai indistinguibili, pur essendo parte di noi e dei personaggi che abbiamo incontrato e perduto lungo la strada. Ed eccoci ancora qui, per la penultima volta, invitati stavolta da una convocazione video da veri feticisti -anche se ne' Chiara ne' io siamo riusciti a vederla sul nostro computer: nel suo l'attach e' stato segato da qualche cavolo di firewall, mentre il mio Macintosh rifiuta di aprire roba codificata da Windows Media Player. Antonio ce la mostra sul suo portatile: una perfetta cattura video dei primi secondi della sigla, con il monolite grigio che a cavallo fra il 2001 e il 2002 ci ha a poco a poco regalato il salto storico nella scala evolutiva del cinefilo traghettandoci alle soglie dell'era del dopo-HEIMAT.

Oltre al fedelissimo Francesco, allo zoccolo duro si aggiunge stavolta la guest star Pierpaolo. Che ascolta con un certo sospetto una conversazione che pullula di riferimenti per iniziati al culto, ma a cui va dato atto di non riuscire a mascherare piuttosto bene il suo ansioso scrutare la porta di uscita come per assicurarsi che in caso di emergenza non ci siano ostacoli. Alla fine, pero', l'esperienza non sembrera' destare il suo entusiasmo: quando Antonio gli chiede come sia stata la sua prima puntata di Heimat, il suo schiarirsi la gola esprime senza dover usare nemmeno una parola una risposta che avrebbe potuto suonare: "Non era la prima, era l'ultima".

Noi ormai siamo troppo addentro per condividere uno sguardo cosi' cinico, e da bravi adepti ci godiamo un'altra di quelle puntate senza rete che ci accompagnano sempre piu' lontano dagli anni della guerra, da quell'anormalita' sospesa che tutto copriva e unificava alla molto piu' ardua quotidianitư: senza alibi e senza scuse, in cui lo specchio in cui ci si deve guardare in faccia non e' piu' rotto. Da bravi sacerdoti, ci apprestiamo al rito tradizionale dello scartocciare la cassetta nuova. Chiara, perfettamente in parte, comincia a mormorare ritratti dei presenti imitando in modo miracoloso la parlata di Glasisch quando sfoglia le fotografie. "Antonio. Me lo ricordo cosi' bene, Antonio. Sempre a lavorare in quella societa', aveva appena avuto la macchina aziendale. Francesco era al Ministero degli esteri. Faceva l'archivista, ed era quello che sapeva il tedesco. Questo e' Pierpaolo. Era arrivato solo quella sera, e non sapeva cosa l'aspettava. Povero Pierpaolo." Roba di questo genere: ma bisogna aver seguito tutta la serie per capire.

La sequenza di fotografie sfogliate da Glasisch e' dedicata in gran parte a Marie. Deve esserne un po' innamorato, perche' ne parla sempre con affetto particolare. La chiama "il nostro secolo vivente", perche' e' nata nel 1900 e guardando le sue foto si puo' capire dalla sua eta' in che anno ci si trova. La cosa sarebbe vera per chiunque, ma bisogna ricordare che Glasisch non e' esattamente un'aquila e che le addizioni sono piu' facili quando si parte da una cifra tonda -come ben sanno i piu' ottusi fra i nostri connazionali, che da oltre un mese arrancano a calcolare i centesimi di Euro e borbottano addirittura che sarebbe meglio abolirli. L'associazione non e' cosi' peregrina: a meta' della puntata, Pauline scopre di avere in casa un piccolo capitale ormai inservibile in marchi del Reich, nascosti da suo marito prima di restare disperso in Russia e ormai irreparabilmente fuori corso.

Sono passati dieci anni dalle tragedie amorose del giovane Hermann, che non e' piu' cosi' giovane ma e' diventato un musicista di successo internazionale, anche grazie al sostegno economico di Paul Simon, l'Americano, che in realta' non e' suo padre naturale (ricordate? Hermann era nato dalla relazione di Marie con l'ingegner Otto Von Leuven, saltato poi su una bomba inglese che cercava di disnnescare). Paul ha venduto la sua Simon Electric a una multinazionale e ora si gode il denaro ricavato scoprendo quanto sia piu' bello spendere che guadagnare. Un'altra multinazionale arriva a offrire ben 60 milioni di marchi per la fabbrica di Anton, che pero' e' molto perplesso. Vendere? Proprio ora che sta registrando due o tre nuovi brevetti? Proprio ora che ha dato a un suo tecnico il compito di dedicarsi esclusivamente a una nuova lente in cui l'obiettivo possa oscillare rispetto al corpo che lo sostiene? (Di che si tratta? Lo zoom mi pare esistesse gia' alla fine degli anni Sessanta, mentre la lente Tilt and Focus mi pare sia nata nel decennio scorso. O sbaglio?)

Ma questo e' uno dei temi piu' interessanti della puntata: sepolta la guerra da due decenni, stiamo arrivando agli inizi delle grandi concentrazioni, e HEIMAT ci offre un punto di vista suggestivo sui micromotivi che senza averne tutta la responsabilita' stanno forse alla base dell'evoluzione dell'economia nella direzione dei grandi conglomerati. I creatori di grandi industrie spuntate nel boom economico del pre e soprattutto del dopoguerra raggiungono una certa eta' e non sempre se la sentono di continuare a tirare la carretta. Forse e' inevitabile che a subentrare non siano singoli individui che non avrebbero i mezzi per rilevare imprese gia' notevoli, e che a farsi avanti siano solo gruppi gia' consolidati e forti di profitti da reinvestire in qualche modo. Stanno spuntando i colossi, gli stessi che negli ultimi venti anni del secolo arriveranno a diversificare le proprie attivita' sempre piu' fino a divenire veri e propri imperi industriali su cui il sole non sorge e non tramonta mai. Reitz tutto questo ce lo racconta, come sempre, senza averne l'aria, capace di descrivere un mondo davvero a trecentosessanta gradi, seguendo le vicende umane senza perdere di vista qulle storiche -e fin qui non ci sarebbe forse da ululare alla luna- ma anche mantenendo salda la presa sull'evoluzione sociale di tutto un paese.

Fra le novita' meno emozionanti del periodo, arriva anche la TV a colori. Combinazione, proprio venerdi' pomeriggio -andando a Coming Soon- leggevo una bella frase di Walter Bernstein circa il passaggio al colore dal bianco e nero. Bernstein, in realta', si riferisce al cinema (il libro, consigliato a chiunque sia arrivato fin qui in questo thread chilometrico e sicuramente di interesse tutt'altro che generale, si intitola "Inside Out, a Memory from the Blacklist". Un graditissimo regalo di John, che me l'ha fatto autografare dall'autore -l'ultimo ancora in vita dei famosi "Dieci di Hollywood"), ma merita di essere riportata la sua riflessione sulla differenza fra "the honest unreality of black-and-white" e "the false reality of color". Reitz ripropone il momento fatidico, e il fatto che il colore compaia per la prima volta sul teleschermo su un'immagine decisamente prosaica come quella di un pulsante premuto dal dito di qualcuno fuori campo corrisponde in modo curioso al cliche' duro a morire del popolo tedesco come poco incline alla poesia -un cliche' che HEIMAT non e' certo il primo a smentire.

Piu' interessante invece e' l'attivita' con cui Ernst e' riuscito a rimettersi in piedi, dopo essersi deciso a rinunciare al volo e -quei piedi- a tenerli ben piantati in terra: lo vediamo girare per la zona vendendo infissi di alluminio e mobili componibili, e rinnovando le case della gente del posto. Solo alla fine scopriremo che questo lucroso commercio ha un corollario potenzialmente ben piu' proficuo: perche' tutte le vecchie finestre, i vecchi infissi, le vecchie tegole, i vecchi mobili che gli acquirenti cedono a Ernst in cambio di uno sconto (meccanismo in auge da tempo, ma che solo pochi anni fa abbiamo cominciato a chiamare "rottamazione") verranno poi restaurati e rivenduti a caro prezzo sul nascente mercato dell'antiquariato. Dicevamo la settimana scorsa che si stava meglio quando si stava peggio? Si scherzava, ma e' vero che l'affare della nostalgia sta cominciando a diventare interessante. Tutto contento, Ernst mostra al fratello Anton il piccolo impero che si sta costruendo, grazie anche alla genialata di farsi produrre da un esperto in odori il profumo spray del Vero Mobile In Legno Vecchio Cent'anni. Un profumo, assicura, a cui gli acquirenti non sanno resistere. Patrick Susskind approverebbe. Anton invece e' molto critico. Qualcosa in lui sembra metterlo sempre contro i suoi fratelli (e del resto, nella puntata scorsa, Ernst era stato l'unico della famiglia a schierarsi dichiaratamente dalla parte di Hermann) ma in questo caso l'opposizione e' simbolica: da una parte quello che svende pezzo per pezzo l'eredita' del passato, dall'altra colui che non cede di un millimetro, nemmeno quando una multinazionale e' pronta a coprirlo di miliardi. Per annunciare il suo rifiuto della pur generosa offerta, Anton convoca tutti i suoi dipendenti nel prato davanti alla fabbrica, e davanti a tutti detta a Lottie (che ormai, commenta Francesco, sembra una delle donne occhialute disegnate da Gary Larson) il telex con la risposta. Intanto pero' Pauline ha convinto Marie a partire per una vacanza in America a trovare Paul. Alla fine i soldi bisogna saperseli godere -visto soprattutto che fine hanno fatto quei risparmi in Reichsmarks. Maria vende cosi' la mucca, ma si vede che e' come tagliarsi una parte di se stessa: le lacrime rigano le sue guance ormai avvizzite dal truccatore.

Un altro segno del passato che se ne va, traumatico per noi come per i vecchi del villaggio, e' la rimozione della famosa statua al milite ignoto della prima Guerra Mondiale -un momento immortalato dall'ennesima foto di gruppo (e, a proposito, che fine avra' fatto Eduard? Dopo Lucie, che non abbiamo piu' visto nella puntata degli anni Cinquanta, ecco un altro personaggio importante che sembra evaporato come le ultime due zie della "Famiglia" di Scola). E arriva il momento del trionfo di Herman, che esegue un concerto di musica per Volkswagen e sega elettrica -e un bel po' di altre cose registrate qua o la' e trasformate in musica elettronica con artistiche distorsioni permesse dai macchinari comprati dai soldi della Simon Electric. Anton, che era venuto a chiedere a papa' Paul se vendere o meno (e non ha seguito il consiglio) non puo' non accorgersi che suo padre apprezza di piu' l'estro del figliastro che la capacita' imprenditoriale di lui che e' il figlio naturale e primogenito. E sembra di ascoltare il suo risentimento, quando ascolta dal magnetofono il canto dell'usignolo che Hermann ha registrato per aggiungerlo alla sua sinfonia. Il concerto e' trasmesso ovunque alla radio e suscita molte perplessita' fra gli abitanti di Schabbach. A restarne conquistato e' solo il vecchio Glasisch, povero di spirito che ereditera' se non quello dei cieli almeno il regno dell'avanguardia musicale.

La puntata si chiude -come tradizione- con Chiara addormentata. Si e' persa solo l'ultima ventina di minuti, ma ha fatto in tempo a suggerire un'interessante chiave di lettura che identifica i fratelli con i sensi piu' importanti: Anton, con le sue lenti, e' l'occhio; il musicista Hermann e' palesemente l'orecchio; Ernst, dal canto suo, fa appello all'odorato per vendere le sue antichita'. Non proviamo a trarre conclusioni dalla considerazione, ma ci limitiamo a contemplarla compiaciuti per l'acrobazia critica. E ci salutiamo con un brivido. La settimana prossima si chiude.

82' (10-continua)

La risposta di Antonio

1/11 Nostalgia di terre lontane (1919-28) - 119'
2/11 Il centro del mondo (1929-33) - 89'
3/11 Natale come mai fino allora (1935) - 57'
4/11 Via delle alture del Reich (1938) - 58'
5/11 Scappato via e ritornato (1938-39) - 57'
6/11 Fronte interno (1943) - 57'
7/11 L'amore dei soldati (1944) - 58'
8/11 L'americano (1945-47) - 103'
9/11 Hermannchen (1955-56) - 138'
10/11 Gli anni ruggenti (1967-69) - 82'
11/11 La festa dei vivi e dei morti (1982) - 82'

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Tutti i testi © Alberto Farina