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La famiglia Boyle
(l'Orologio - luglio 2003)

In apparenza, la Boyle Family può sembrare una tipica famiglia media di quelle che compaiono nelle statistiche: padre (Mark Boyle, nato a Glasgow nel 1934), madre (Joan Hills, Edimburgo, 1931), figlio (Sebastian Boyle, Londra 1962) e figlia (Georgia Boyle, Londra 1963). In realtà, di medio, i Boyle hanno ben poco: raro esempio di collettivo artistico-familiare (con una formazione definita nel 1985, anno in cui hanno deciso di non firmare più le loro opere con i nomi individuali ma di farsi identificare come gruppo), sono di quelle persone che fanno dell'arte uno strumento per guardare la realtà in un modo diverso.

I Boyle sono attivi da anni con una quantità di iniziative ampiamente documentate all'indirizzo http://www.boylefamily.co.uk/ da un sito sobrio nell'impostazione ma estremamente ricco di illustrazioni e di roba da leggere: si va dalla consulenza luministica per i concerti di Jimi Hendrix (al quale Mark dedica un bel ricordo in un lungo articolo autobiografico intitolato "Beyond Image" e raggiungibile dall'area testuale del sito, http://www.boylefamily.co.uk/boyle/texts/index.html), a spettacoli di suoni e luci realizzati proiettando su uno schermo un campionario ampio e per alcuni rivoltante dei fluidi corporei degli artisti stessi. La loro opera più celebre è però il loro Journey to the Surface of the Earth, un viaggio sulla superficie terrestre iniziato nel 1964 - tuttora in corso e suddiviso in gruppi come la London Series, la Tidal e la Thaw Series, la Japan Series e il più ambizioso progetto World Series. Sulla carta, le regole sono semplicissime: con una procedura casuale viene individuata un'area rettangolare della superficie terrestre: i Boyle procedono a riprodurre quell'area in qualcosa che loro si ostinano a chiamare "dipinto" ma che in realtà è un'accuratissima riproduzione in rilievo in fibra di vetro.

Nel caso della World Series l'individuazione dei punti da riprodurre ha coinvolto i visitatori di una mostra dei Boyle, tenutasi a Londra nel 1969: indossando una benda e lanciando freccette su una enorme mappa del mondo, il pubblico ha selezionato in questo modo 1000 luoghi diversi, lasciando agli artisti il problema di recarsi sul posto - ovunque esso si trovasse - e risolvere in qualche modo il problema di riprodurre esattamente ciò che vi si trovava. A qualsiasi costo: perché un'area relativamente facile come un pavimento lastricato poteva essere seguita da un campo coperto di neve, dalla superficie di un lago o da un punto sulla spiaggia dove la risacca si era appena ritirata lasciando i resti semidistrutti dei piccoli tunnel scavati dai vermi della sabbia.

Grazie a certi cari amici comuni, all'inizio dello scorso luglio ho avuto il privilegio di incontrare i Boyle di persona, ammirando i "dipinti" che costituiscono la sola decorazione della loro accogliente Christmas House nel cuore del Greenwich Park. Su tutte le pareti, questi frammenti di realtà congelata fin nel più piccolo particolare - un chiodino rugginoso caduto negli interstizi fra due sanpietrini, pietruzze microscopiche accanto a un ciuffetto d'erba secca - sono il frutto di uno sforzo sovrumano di cattura del tempo che diventa consapevolmente una grandiosa testimonianza di fallimento. It's all about accepting reality as it is, dice Mark a chi gli fa delle domande: accettare la realtà così come è, sapendo che quello che è stato congelato per sempre nella fibra di vetro non è esistito se non in quel preciso luogo e in quel preciso momento. Se è impossibile tuffarsi due volte nel fiume eracliteo, nemmeno i Boyle potranno calpestare di nuovo quel campo di patate, quelle ceneri lasciate da un incendio, quella superficie metallica corrosa dalla ruggine. E chi si imbatte nelle loro opere (che, sito a parte, saranno esposte nell'ottobre 2003 in una grande mostra attualmente in allestimento a Edimburgo) se ne va con una certezza: da ora in poi, anche guardare dove si mettono i piedi potrà (ri)diventare un'avventura.

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Tutti i testi © Alberto Farina