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INTERVISTA CON OBERDAN TROJANI

Potremo mai finire di parlare di Orson Welles? Non passa anno senza che non sia ritrovata qualche scheggia della sua sterminata e frantumatissima produzione. Vulcanico iniziatore di un progetto dietro l'altro, sempre in lotta contro il tempo e la mancanza di soldi, Welles ha disseminato il mondo di appunti, pezzetti di film girati nell'arco di decenni, documentari misteriosi e perfino qualche opera quasi compiuta ma bloccata in chissà quali cassaforti da complicate vertenze giudiziarie.

Un giorno, forse, si riuscirà a riordinare in una biografia enciclopedica tutta la sua storia di film mai esistiti, dei progetti troppo geniali scaturiti da un fuoco creativo condannato a consumarsi, tragicamente, senza poter realizzare che una parte delle sue potenzialità. Per adesso anche operazioni come quella, recente, del restauro dell'Otello -girato avventurosamente tra il 1948 ed il 1952- restano segnate dall'impossibilità di un recupero completo. La nuova copia che ha circolato l'anno scorso, benché contenesse alcune scene che sembravano perdute, aveva infatti anche diverse lacune abbastanza gravi, a cominciare dalla sparizione di alcune immagini (dei gatti che corrono, a Venezia, alcune gondoleä) che in un'altra versione sostituivano i cartelli dei titoli di testa, letti dalla voce fuori campo dello stesso Welles. Anche la colonna sonora è stata ri-eseguita senza interpellare la famiglia del compositore originale, basandosi su una trascrizione derivante dall'ascolto dell'originale. Così facendo è stata cancellata completamente una litania cantata durante il funerale in apertura del film, che ora è commentato solo dalla musica.

Sull'avventurosa storia di Otello, già in parte raccontata dallo stesso Welles nel documentario Filming Othello (1980) abbiamo potuto raccogliere una preziosa testimonianza di prima mano: quella del direttore della fotografia Oberdan Trojani che, nonostante nei titoli divida il merito con altri quattro colleghi, resta il responsabile della maggior parte delle riprese di Otello. Autentica miniera di ricordi e fatti finora inediti, Trojani ci permette di aggiungere qualche importante tassello all'inesauribile mosaico della personalità e della vita di Orson Welles.

Come è nata la sua collaborazione con Welles?

Ci eravamo conosciuti sul Cagliostro (1949), che fu girato in Italia da Gregory Ratoff, ed in cui io ero soltanto un secondo assistente. Prima che lui venisse sul set qualcuno mi aveva avvertito di non importunarlo, perché tutti lo temevano; ma io parlavo spagnolo e quindi, neanche a farlo apposta, diventai l'unico con cui lui scambiava qualche parola anche perché mi piaceva ascoltare i suoi racconti. Con lui c'era una ragazza che doveva insegnargli l'italiano, ma alla fin fine parlavamo sempre in spagnolo. Dopo il Cagliostro io cominciai, sempre come secondo assistente, un altro film, inglese; lui iniziò a girare le prime scene di Otello, quelle con Joseph Cotten...

Joseph Cotten in Otello?

Joseph Cotten, sì. Ma c'è anche Joan Fontaine, che fa un paggio! Cotten c'è all'inizio, nelle scene del palazzo ducale, e fa non so se un doge o qualcosa di simile. Più tardi, quando la fotografia dell'Otello era già passata a me, vennero anche a trovarci sul set. Ma le scene con loro non fui io a girarle.

Quali sono le scene girate da lei?

Dunque, il film fu iniziato da Fusi. Poi subentrò Brizzi, di cui io ero assistente, che girò la prima serie di riprese in Marocco. Poi, tornati in Italia, Brizzi se ne andò: era un grande mestierante, ma non gli andava troppo di lavorare in modo così precario, senza soldi. A Venezia firmò un contratto per andare a girare un film in Germania; io avrei dovuto seguirlo ed invece Welles mi propose di occuparmi io della fotografia. Io all'inizio avevo paura di prendermi una simile responsabilità, così gli portai il francese Aldo, che aveva fatto La terra trema(1). Quando tornammo in Marocco, però, Aldo dopo pochi giorni mollò tutto perché non ce la faceva: non teneva conto per niente della fotografia dei due operatori precedenti e si rifiutò di girare alcune inquadrature come voleva Welles e ci furono alcuni battibecchi. A quel punto dovetti subentrare io e girai praticamente tutto il resto del film. Nei titoli risulta anche un certo Fanto, che è sempre stato in mezzo a noi fin dall'inizio: era un vecchio che seguiva Welles da molto tempo, gli faceva un pò da segretario e qualche volta si arrangiava anche a fare da operatore.

Per essere girato da sei persone diverse, Otello ha una unità stilistica sorprendente...

Quello è stato il lavoro più duro che ho dovuto fare, legare gli stili di Fusi, Brizzi, Aldo con uno stile ogni volta intermedio... anche all'interno di una sequenza, perché Welles non aveva completato neanche una singola scena. In un dialogo, uno parlava a Mogador, in Marocco e l'altro gli rispondeva a Venezia: tutti i campi e controcampi sono stati girati in posti diversi. Ogni volta che giravamo dovevo cercare di ricostruire la luce della ripresa corrispondente. Ricordo che quando vide il materiale in proiezione voleva baciarmi i piedi: neanche Greg Toland ebbe mai un simile onore; ma io non potevo accettarlo, gli dissi Guardi che la fotografia di questo film l'ha fatta lei!

Però, ai tempi del bianco e nero, lo sviluppo era diverso: oggi, col colore, si sviluppa tutto il negativo in una volta; allora invece ogni singola ripresa veniva sviluppata separatamente: alla fine di ciascun ciak si faceva una tacca sul negativo e lo sviluppatore sapeva che dalla tacca tale a quella successiva lo sviluppo doveva dare quel certo effetto. Via via che si girava, poi, di ogni scena veniva stampato un "provino" su carta: queste foto servivano, quando non venivano perse, da riferimento per i controcampi; ed inoltre Welles le usava per vendere il film ai distributori di tutto il mondo. Naturalmente spesso capitava che, girando pezzi di una sola scena a distanza di mesi, nel corso di un dialogo si scavalcasse il campo e ci si trovasse due primi piani consecutivi di due personaggi girati entrambi nello stesso senso: e allora Welles rivoltava il negativo invertendo sinistra e destra. Ma, oltre che direttore della fotografia, il mio compito fu anche di occuparmi delle miniature...

Miniature?

Tutto il film è pieno zeppo di modellini. Tutto l'inizio col funerale, la parte più bella, è fatta con ricostruzioni in miniatura. In Marocco ne era già stata girata una parte, ma Welles volle rifare tutto con ricostruzioni in miniature. Della gabbia di Jago, per esempio, ne esistevano tre esemplari: una a grandezza naturale, una intermedia ed una piccolissima -poteva stare in una mano- che stava appesa al soffietto della macchina da presa. Quest'ultima serviva per quando si vede la gabbia appesa alle mura del castello (che ovviamente erano modellini anch'esse): piccola com'era, nella ripresa sembra lontanissima.

L'unico modellino che si riconosce come tale è quello della nave, che però doveva essere abbastanza grossa, visto che ci si vedono delle persone...

Anche la nave fui io a costruirla, ma era piccolissima. Il marinaio che si vede in una inquadratura era un macchinista della troupe che Welles aveva fatto salire sul tetto del ristorante della Scalera film: lo filmammo tenendo il modellino della nave in primissimo piano ed allineandola con il macchinista sul tetto.

Un'altra volta andammo fino a Pavia per far passare Jago dietro ad un passaggio sul frontale del Duomo di S. Pietro, che Welles aveva trovato chissà in che modo. Il passaggio non era praticabile, per mandarci uno Jago ci furono non so quanti problemi; ed il controcampo, col punto di vista di Jago che guardava giù attraverso le colonne, fu realizzato con un altro modellino minuscolo perché lassù la macchina da presa non si poteva portare. Un modellino attraverso cui si vede un selciato trovato a Roma, all'Eur!

Quando decideste di ricorrere alle miniature in modo così massiccio?

Fu un'idea sua, che gli venne quando si trattò di girare la morte di Desdemona. La scena fu girata in una chiesa sconsacrata che sta a Viterbo. Nel film la stanza ha una botola sul soffitto, che però in realtà non è mai esistita. Però a Mogador, sopra le grandi mura della città, c'era un pozzo da cui Welles fece affacciare Cassio e Jago, quando guardano giù ed assistono all'atto finale della tragedia. Io in teatro feci costruire in miniatura l'interno del pozzo e lo fissammo vicinissimo alla macchina da presa, cosicché sembrava che l'imbocco fosse lontano, un buco sul soffitto. Su un altissimo praticabile, praticamente appesi al soffitto, avevamo messo i due attori -Jago e Cassio- in modo che sembrassero affacciarsi dalla cima di un pozzo altissimo. Invece anche la botola che loro aprivano faceva parte del modellino: davanti alla macchina da presa un qualunque macchinista apriva lo sportellino-botola mentre gli attori, dieci metri più in alto, facevano il gesto corrispondente, fingendo di aprire una botola a grandezza naturale! Venne così bene che Welles cominciò ad usare modellini uno dietro l'altro... Dopo questo film, infatti, aveva deciso di girarne un altro usando esclusivamente i modellini: aveva già preparato tutte le miniature per girare Il diluvio universale, ricostruendo dei famosissimi monumenti che voleva far travolgere dai flutti. Sarebbe stata una versione moderna del diluvio, in cui l'Arca sarebbe stata una nave-bisca; dovevano esserci dei figli negri di Noè che, durante il diluvio, sarebbero finalmente stati trattati senza razzismi, ma da cui i figli bianchi avrebbero ripreso le distanze appena finito il pericolo.

So che ci sono stati diversi cambi della guardia anche per l'attrice protagonista...

Di Desdemone ne abbiamo avute tre "ufficiali"; e poi una serie infinita di controfigure, costituite indifferentemente da donne e da uomini in costume. La prima fu Lea Padovani, che nel film finito appare due o tre volte, nelle inquadrature del Palazzo Ducale. Poi andammo a girare in Marocco, raggiungendo Welles che recitava in La rosa nera (1950) della Fox, ed aspettammo una decina di giorni che lui finisse di lavorare lì per andare a Mogador. Laggiù la nostra Desdemona fu Betsy Blair, che era la moglie di Gene Kelly (che infatti ci venne anche a trovare sul set). Sui giornali ho letto che ci sarebbe stata anche Cecile Aubry la quale, essendo delicata, non avrebbe sopportato gli strapazzi cui Welles la sottoponeva; non so come queste voci strampalate prendano piede, ma non è vero. La Aubry era l'attrice della Rosa nera ed io l'incontrai alla mensa della produzione senza sapere che era la protagonista: lei per prendermi in giro fece finta di essere una qualsiasi. Ma sul set di Otello non la si vide mai.

Tornati in Italia, infine, fu trovata questa Susanne Cloutier che ereditò il ruolo, il che ci costrinse a rigirare tutto il materiale, filmato in Marocco, in cui si vedeva il volto della Blair.

Cosa ricorda di Welles come attore?

Ci teneva ad essere inquadrato dal basso perché era vanitoso, e quell'angolazione gli sfinava il viso. Fece rompere il pavimento degli studi della Scalera per abbassare la macchina di 10 centimetri. Poi, però, si faceva prendere dalla regia e girava materiale in cui lui non appariva, oppure faceva passare alcune sue controfigure, di schiena o in campo lungo. Quando prevedeva di recitare doveva naturalmente farsi truccare da moro, con tutti i capelli arricciati e soprattutto il viso nero; poi non girava neanche un'inquadratura con se stesso, guardava sempre nell'obiettivo per studiare l'angolazione e, quando toccava a me mettere l'occhio in loop, mi annerivo completamente. Alla fine come attore non aveva girato quasi niente: si era sempre servito di sue controfigure; così ci si mise lì e girammo una marea di primi piani, che poi furono montati al posto giusto.

E come regista?

Non accettava i limiti della tecnologia. Il suo sogno era una macchina da presa ridotta al solo obiettivo, per poterla infilare negli anfratti più piccoli. Con lui la macchina finiva sempre per incastrarsi nei buchi più strani...

Il suo perfezionismo sovrumano mi incantava: una volta facemmo un carrello seguendo lui di spalle che si avvicinava a Jago. Lui voleva assolutamente che la Macchina da presa lo seguisse alla sua stessa esatta velocità, fermandosi nell'esatto istante in cui si fermava lui. Ma era impossibile sincronizzarsi, perché naturalmente c'è sempre un mezzo secondo di tempo di reazione: per cui alla fine del carrello e della camminata la macchina inevitabilmente faceva un ultimo, minimo movimento verso di lui. Welles allora prima cercò di far costruire un marchingegno per tirarsi dietro la macchina da presa da solo. Poi, visto che non funzionava, ci fece rigirare la scena e alla fine del suo movimento, già fermo sulle gambe, si piegò leggermente in avanti col corpo, "riassorbendo" il movimento della macchina da presa!

Mi raccontò anche di una volta che voleva girare un carrello molto lento sul Macbeth: all'epoca non esistevano caricatori di pellicola più lunghi di trecento metri, così andò in camera oscura ed aggiunse, incollandolo, un altro pezzo al negativo creandone uno abbastanza lungo da poter superare il piano sequenza e fare il carrello che voleva lui. Se sia vero o meno non lo so: ogni tanto le sparava grosse, come quando mi disse di essere imparentato cogli Orsini. Ci teneva molto ad avere un famiglia blasonata.

E' vero che, come persona era molto difficile da trattare?

Abbastanza. Per dirne una, lui voleva lavorare di notte, e di giorno era intrattabile. Di notte era euforico, soprattutto d'estate. La sera, a cena, era scatenato: era bravissimo a fare giochi di prestigio; una volta si fece dare una banconota da cento franchi, ne strappò un angolino e poi, davanti a tutti, la bruciò! Il proprietario era disperato, ma Welles ritirò fuori la stessa banconota, con l'angolino mancante, da un ananas che stava lì sul tavolo. Sapeva ipnotizzare le galline: le prendeva, le guardava in un certo modo e queste si addormentavano; oppure faceva scherzi buttando per aria tutti i letti. La mattina invece era nero.

Una sera mi raccontò un episodio collegato con il famoso "scherzo" dei marziani. Siccome aveva una voce molto bella, aveva una rubrica fissa alla radio, intitolata The Shadow (2). Una volta vennero in radio quelli del pentagono ed interruppero il programma per comunicare alla nazione che Pearl Harbour era stata attaccata: il pubblico si rifiutò di crederci. Erano convinti che fosse un'altra presa in giro! Lo slogan di The shadow era popolarissimo in tutti gli Stati Uniti: Who knows what evil lurks in the hearts of men? The Shadow Knows! ("Chi sa quale malvagità si cela nel cuore degli uomini? L'Ombra lo sa!") seguito da una risata agghiacciante. Mi raccontò che una volta si era portato una ragazza in un luogo appartato quando in una radio sentì la sua stessa voce che diceva cose come: Io vedo tutto! Io so tutto! L'ombra lo sa! e dovette abbandonare i suoi progetti.

Lei, oggi, come ricorda Orson Welles?

Io lo maledico (ride). Spero di andarlo a trovare, dall'altra parte, e di fargli due begli occhi neri. Dopo di lui, lavorai con Visconti: ma non potevo sopportarlo! Bellissima, che "ereditai" quando la Magnani protestò il direttore della fotografia Portalupi (che poi, però, lo firmò), fu girato tutto in sequenza, dalla prima all'ultima scena, nell'ordine! Come si fa a fare il cinema in questo modo? Dopo Welles tutti gli altri mi sembravano delle schiappe. E poi, sono sempre stato a disposizione di Welles, anche dopo Otello. Feci con lui i provini per un film tratto dal Giulio Cesare;stavo a San Sebastianello a Piazza di Spagna, ero il testimone di nozze di mia cognata: arrivò la macchina del direttore di produzione di Welles, mi prese e mi portò via dal matrimonio per andare all'Eur a girare. In pratica, lui faceva l'inquadratura, io la fotografavo; quindi lui si stampava tutto e ci disegnava sopra i personaggi e i movimenti. Aveva dei volumi, diceva, con tutto il film già montato in fotografie. Senonché il produttore Friedman si spaventò, perché in quello stesso periodo stavano arrivando due o tre produzioni su Giulio Cesare, tra cui quello di Mankiewicz; non se ne fece più nulla.

Che altre collaborazioni ci furono tra di voi?

Per esempio, durante le riprese di Cagliostro avevamo già simpatizzato: un giorno mi fece girare un'inquadratura del Macbeth, a me che ero solo un secondo assistente. Si trattava di un accampamento in miniatura, di notte. Per realizzarla, dovette farmi vedere un pezzo del film, ed io notai un primo piano di Macbeth, girato con un grandangolo in una piazza immensa in mezzo alla quale c'era una donna, i cui piedi però erano tagliati fuori dall'inquadratura. Io ero abituato ad inquadrature di equilibrio molto più tradizionale e gli chiesi perché, con quel campo sterminato, avesse tagliato i piedi: pazientemente mi spiegò che la figura intera avrebbe dato importanza al personaggio, mentre lui voleva minimizzarla.

Poi si fece un documentario su un circo equestre, che stava a piazza Tuscolo, a Roma, dove ora c'è il cinema Paris. Era un circo piccolo, il Circo Zoppè mi sembra. Lui era affascinato dai circhi, fece assumere alcuni artisti dal circo Barnum e volle riprendere alcuni dei loro numeri. A un certo punto io stavo riprendendo una trapezista, che sarebbe dovuta presto partire per l'America, quando le si ruppe la corda del trapezio e lei cadde; per fortuna riuscì a divincolarsi in modo da non cadere di testa, e si salvò. Io avevo ripreso tutto l'incidente. Riprendemmo anche lo smontaggio del tendone, la partenza della carovana, l'arrivo a Tivoli. Quando vidi il materiale alla Tecnostampa, trovai là Rossellini e la sua corte, che dovevano vedere anche loro del girato; siccome io ero prima di lui, mi chiese se potevano restare in sala lo stesso, in attesa del suo turno. Il materiale gli piacque molto. Ma dopo quella proiezione le pizze sparirono, e non se ne è saputo più niente!

NOTE:

(1) Aldo aveva cominciato come fotografo di scena: Trojani l'aveva conosciuto sul set di La certosa di Parma dove Aldo era diventato famoso perché ci metteva più tempo a fare una fotografia che l'intera troupe a girare la scena corrispondente. Un giorno Aldo chiese a Trojani di accompagnarlo a girare un documentario di venti giorni con Visconti (il futuro La terra trema) perché aveva poca dimestichezza con la macchina da presa: Il direttore della Scalera film -si chiamava Franco- aveva però litigato con Aldo e mi proibì di seguirlo minacciandomi di non farmi più mettere piede alla Scalera. Per me la Scalera era casa, abitavo anche lì di fianco, sicché dovetti rinunciare. Aldo ci rimase malissimo, anche perché non aveva nessuna attrezzatura per girare un film, ma si placò quando gli prestai la mia valigetta: "La Terra trema" è girato tutto coi miei filtri! L'operatore alla macchina che andò al mio posto era Di Venanzio e si sparse la voce che in realtà era quest'ultimo a curare la fotografia: il che non era vero perché in seguito Aldo cambiò operatore e fece un bellissimo lavoro con"Il cielo sulla palude" di Genina.

(2) The Shadow fu una trasmissione radiofonica di immenso successo che per circa venticinque anni inchiodò alle poltrone decine di milioni di americani dalle 17.30 alle 18 della domenica pomeriggio. Oltre a Welles, tra il 1930 ed il 1954 vi si avvicendarono come narratori James La Curto -inventore del personaggio- Frank Readick Jr., Bret Morrison ed altri. Il personaggio fungeva da promozione per la rivista settimanale Detective Story ma si conquistò ben presto una testata tutta sua. Ebbe infine un certo successo anche in alcuni serial cinematografici ed a fumetti.

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Tutti i testi © Alberto Farina - Consulenza editoriale: Chiara Strekelj - Creazione sito: Flavia Farina