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INTERVISTA CON RICKY TOGNAZZI

L'altra volta abbiamo parlato dei tuoi inizi come attore. Come hai cominciato, invece, come regista?

Dopo aver studiato in Inghilterra sono tornato in Italia e mi sono iscritto al Cine-TV, e quindi al DAMS di Bologna. Dopodiché ho cominciato a lavorare: ho esordito con Pupi Avati, come assistente alla regia in La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone. Ufficialmente ho firmatio come aiuto regista Bordella, anche se di fatto quel ruolo fu ricoperto soprattutto da Antonio Avati. E poi, piano piano, ho lavorato con Nanni Loy, Maurizio Ponzi (che mi ha sopportato per quattro film di seguito: i tre di Nuti e poi Qualcosa di biondo, in cui ho avuto anche la possibilità di un bellissimo ruolo che per la prima volta mi liberava dal cliché di interpretare il figlio di mio padre), Tinto Brass, mio padre in due film, Sergio Leone con cui ho girato una parte di C'era una volta in America. Ho fatto l'aiuto per dodici anni fino all'incontro come attore con Ettore Scola in La famiglia.

Ettore lo conoscevo già come amico, ma quello fu il nostro primo rapporto professionale. Durante quel film Ettore stava preparando un progetto per la televisione, che si chiamava Piazza Navona: mi prese da parte e mi chiese Ricky, ma insomma che cosa vuoi fare: l'attore o il regista? A me, magari non contemporaneamente, sarebbe piaciuto fare tutti e due: dopo dodici anni di aiuti vorrei dirigere, ma anche come attore, visto che mi chiamano (e che non ho grandi pretese) mi piacerebbe continuare... Un mese dopo trovo sulla segreteria un messaggio di Ettore che voleva parlarmi di un lavoro: io tutto eccitato pensavo mi desse una parte più grossa in qualche altro film, invece voleva offrirmi di dirigere uno di questi sei telefilm. Il titolo era Fernanda.

Il mio lavoro piacque al produttore Franco Committeri che mi chiamò per dirigere la versione cinematografica della commedia Piccoli equivoci, di cui aveva comprato i diritti. Nel frattempo avevo conosciuto Simona, che aveva scritto Arrivederci e grazie, e fu lei ad adattare la piece per il cinema. Il film andò a Cannes nella Quinzaine, e provocò il mio incontro con Bonivento, che ha prodotto Ultrà e La scorta.

Di chi sono i soggetti di questi due film?

Partono entrambi da idee di Bonivento. Dopo Piccoli equivoci tutti mi proponevano film di quel genere. Un giorno Claudio chiamò me e Simona dicendo con tono dubitativo che aveva un'idea per un film ma che non sapeva nemmeno se io ero la persona giusta. Essendo io tifoso, ed amando tutto quel filone di film -da Gioventù bruciata in poi- che raccontano le bande giovanili, l'idea di esplorare il mondo degli ultrà mi colpì molto.

Lo stesso discorso vale per La scorta. Già un anno e mezzo fa Claudio ebbe l'idea di produrre una storia su un gruppo di ragazzi che lavorano in una scorta. Noi stavamo lavorando su Vai con Dio e volevamo rinviare. Poi l'estate scorsa ci sono state la strage di Capaci, e l'omicidio di Borsellino: e ci siamo resi conto che forse, in questo momento, c'era una urgenza vera di rendere protagonisti di una storia degli uomini che spesso vengono ricordati solo in questi momenti.

Che tipo di ricerche avete fatto?

Come nel caso di Ultrà abbiamo per prima cosa cercato di avvicinarci ai protagonisti veri di quell'habitat. Siamo partiti da una scuola di polizia qui, vicino casa, quindi siamo passati ad una scuola di carabinieri. E poi c'e' stato questo incontro molto felice con Taurisano che ci ha dato la direzione giusta per poter costruire il racconto. Lentamente ci eravamo resi conto che il lavoro di una scorta spesso e' molto passivo, fatto di lunghe attese snervanti, pause, porte chiuse in faccia: loro proteggono fisicamente certi personaggi, ma a parte la tensione durante i trasferimenti, di solito non partecipano affatto all'attività dei loro protetti. Abbiamo scoperto che di solito poliziotti e carabinieri non amano questo lavoro; ma che paradossalmente c'e' un maggiore orgoglio ed una maggiore passione nel proteggere personaggi più a rischio: piuttosto che fare la scorta a un politico, magari corrotto, spesso si preferirebbe proteggere un magistrato che lotta contro la mafia anche se naturalmente ciò significa rischiare la vita ogni giorno. Scatta un meccanismo di identificazione che porta ad un grande spirito di sacrificio.

Incontrare Francesco [Taurisano] ci ha spalancato una porta non solo per l'opportunità di conoscere per esperienza personale il rapporto particolarissimo che si crea tra un giudice e la sua scorta; raccontando la noia della guardia del corpo noi rischiavamo infatti di fare un film noioso, ma tra lui ed i suoi protettori si era creato un rapporto di collaborazione che andava molto al di là della semplice protezione: in un ambiente spesso compiacente, quando non addirittura colluso con la mafia, gli unici di cui potesse fidarsi erano gli uomini che rischiavano la vita con lui e che lui, vivendo sempre a contatto, aveva imparato a conoscere.

La crescita del rapporto tra questi uomini -che a tutt'oggi scontano la loro passione ed il loro eroismo con l'emarginazione- ed il giudice, e' ciò che ci ha permesso di dare al film l'elemento più interessante.

Immagino che, nonostante la vicenda del film sia ispirata all'esperienza di Taurisano, la tentazione di un finale spettacolar-commerciale con attentato esplosivo vi abbia sfiorato più di una volta? Cosa vi ha fatto decidere altrimenti?

Fin dall'inizio ci siamo posti il problema di come evitare un finale che, paradossalmente, volevano tutti. La vita di una scorta spesso e' una roulette russa, che novantanove volte su cento e' un susseguirsi di falsi allarmi, ma la centesima volta può rivelarsi quella fatale. Nello spettatore, poi, c'e' sempre l'attesa un pò masochistica di quest'ultima eventualità.

In una prima versione della sceneggiatura avevamo evitato anche l'attentato centrale, che avvenne anche nella realtà e fu sventato per un pelo: a Trapani vi fu un attentato contro Donatella, la donna di Taurisano che e' anch'essa magistrato. Le piantarono una bomba in macchina: al momento di salire uno della scorta si accorse che c'era la sicura alzata. Chiese: Hai lasciato tu la macchina aperta? Risposta: No, io l'ho chiusa. E c'era una bomba collegata al riscaldamento, pronta ed asplodere.

Ultrà e La scorta sono stati paragonati a dei western moderni, qualcuno ha anche ricordato che hai lavorato con Leone...

Beh, certo che l'intenzione non era quella di fare dei western. Ma i modelli narrativi si possono assomigliare. La scorta e' un film di guerra, che non a caso abbiamo ambientato in Sicilia piuttosto che a Roma o altrove: la situazione e' di pericolo continuo ed inafferrabile, di un nemico che si annida nelle tue stesse file. E poi i temi dell'amicizia virile, del coraggio e della vigliaccheria, il sospetto di tradimento sono tipici di quel genere di film: sul set, naturalmente, queste influenze passano. Devo dire quindi che la definizione non mi disturba affatto ed anzi la trovo interessante: del resto il compito dei critici e' spesso quello di trovare chiavi di lettura che magari l'autore non ha avvertito.

Per quello che riguarda Leone, poi, sono estremamente lusingato dall'accostamento: oltre che un grandissimo regista e' stato per me quasi un parente, qualcuno con cui potevo scherzare e per il quale ho ancora un grande affetto ed una grandissima stima.

Che cosa pensi di aver imparato dai vari registi con cui hai lavorato?

Il rapporto tra regista ed aiuto non e' di maestro e discepolo: e' più un rapporto tecnico-organizzativo; devi rubare le informazioni, assimilare situazoni e problemi. Spesso si impara di più dai brutti film e dai cattivi registi. I grandi lavorano con una naturalezza che, naturalmente, può darti moltissimo: però quando in un brutto film c'e' qualcosa che non funziona, e' un cazzotto nello stomaco che non dimentichi più.

In ogni caso, non saprei ridurre a pochi nomi la lista delle maggiori influenze: il rapporto con Ponzi e' stato il più duraturo, ma anche la breve esperienza con Scola, sia pure come attore, mi ha insegnato moltissimo. Potrei ricordare la tenacia, la professionalità e la grinta di Tinto Brass, la naturalezza e la semplicità di Comencini, con cui ho fatto due film.

La fatica del mestiere dell'attore non e' tanto nel lavoro, quanto nell'attesa tra un lavoro e l'altro. Un pittore non ha bisogno di nessuno, si esprime sulla tela; uno che scrive avrà anche l'incubo del foglio bianco ma può scrivere da solo. Anche un regista, se non lavora, può sempre progettare nuovi film. Un attore, finché non viene chiamato, non può che aspettare qualcuno che lo chiami, fare provini sperando di essere scelto col terrore di essere scartato. Io vedevo che anche mio padre, con la carriera che aveva alle spalle, viveva spesso nella tensione di non trovare il prossimo film.

Nei tuoi film come regista non reciti mai. Perché tieni separate le tue professioni?

Prima di tutto si tratta di conoscenza dei propri limiti. Per dirigere un film ci vorrebbero almeno ventisei ore al giorno, e purtroppo ce ne sono solo ventiquattro, parecchie delle quali si sprecano per dormire. Anche se vai a dormire con la sceneggiatura -e con lo sceneggiatore, nel mio caso- non riesci mai ad avere il controllo che sarebbe necessario. E poi, come attore, io ho un assoluto bisogno di un regista che mi dica cosa devo fare: non ho una tecnica da actor's studio ne' un totale controllo sul mio corpo e sulla mia voce. Per raccomandarmi a registi eventualmente interessati ad assumermi potrei aggiungere anzi che, come attore, non rompo affatto le scatole: seguo le loro indicazioni con la massima docilità!

Mi puoi dire qualcosa di Vai con Dio?

E' stato scritto da Simona e Graziano un anno fa. L'idea e' di Graziano, che voleva affrontare un mondo strano e misterioso come quello dei preti, andando però al di là ed esplorando il tema dell'ambizione che, credo, sia una delle emozioni che più ha dominato in quest'ultimo decennio. Nel mondo religioso credo che l'ambizione sia uno dei peccati più grossi. La sceneggiatura e' pronta ma siamo ancora presi nel vortice della Scorta, che sta avendo un grosso successo.

E' stato difficile montare produttivamente La scorta?

Non per noi, dato che il film ci e' stato proposto dal produttore. Ma Claudio ha avuto il suo daffare: e' un periodo di crisi spaventosa, i finanziamenti del Ministero erano fermi da un anno, i rapporti con i prefinanziamenti televisivi sono diventati durissimi. Claudio -senza farcelo affatto pesare- ha rischiato tutto su questo film in cui credeva, e questo mi rende doppiamente felice per il successo che il film sta avendo: felice per Claudio che può dimostrare di aver visto giusto, e felice per tutti quelli che avrebbero potuto partecipare all'avventura ed ora si mangiano i gomiti per essersela fatta scappare. Con Claudio in tanti hanno giocato al gatto col topo; ma adesso il gatto lo fa lui.

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Tutti i testi © Alberto Farina - Consulenza editoriale: Chiara Strekelj - Creazione sito: Flavia Farina