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Due o tre parole sul cinema di exploitation

di Samuel L. Bronkowitz

La settimana scorsa ho visto Twister. Una porcheria, se lo chiedete a me. Tornadi, uno dietro l'altro, e nemmeno lo straccio di una storia. Neanche io avevo molta trama in That's Armageddon: ma allo stesso prezzo offrivo allo spettatore un'esplosione atomica, un terremoto, un'alluvione, il crollo di una diga, incendi, esplosioni e il maniaco arciere "Sterminatore dei Gemelli".

Di recente, su consiglio di un amico, ho anche affittato una cassetta di Pulp Fiction. Sparatorie, violenza gratuita e Sam Jackson che snocciola parabole religiose. Sai che novità: la mia Cleopatra Schwartz ammazzava molta più gente e il suo amante rabbino pregava per le sue vittime mentre le reggeva il nastro della mitragliatrice.

Tutto il cinema (americano e non) degli ultimi vent'anni ha scopiazzato a man salva dalle mie produzioni. Michael Crichton ha letteralmente rubato le scene migliori di Jurassic Park e di Congo dall'episodio nella giungla di See You Next Wednesday. Independence Day non fa che riproporre lo spirito di Amazon Women on the Moon, però con molte meno donne. Per non parlare delle innumerevoli imitazioni della nostra serie sexy dedicata alle Liceali Cattoliche.

Sparate sul regista Un amico mi ha detto che se decidessi di far causa ai produttori attuali potrei fare una fortuna. Gli ho risposto che la mia fortuna me la sono già fatta con i film che ho prodotto in quasi cinquant'anni di carriera. Sono un uomo di cinema e so come vanno queste cose: se ho avuto a che fare con gli avvocati, non è stato mai per scelta. Non vedo perché dovrei cominciare adesso.

Mi irrita però l'arroganza ignorante. Non tanto quella dei produttori che spendono 175 milioni di dollari per roba come Waterworld: liberissimi di farlo, tanto poi il biglietto costa sempre $8. No, dico l'arroganza del pubblico. Che pretende di saper scegliere il meglio: e invece va a vedere solo quei cinque o dieci blockbusters che le major gli impongono ogni estate. Senza rischiare, senza dare una chance ai film che non sono stati pompati dalla pubblicità, o che non hanno un accordo di merchandising con MacDonald's, Taco Bell o qualche dannata marca di corn flakes.

Odio la gente che dice ai miei tempi. Però ai miei tempi potevamo affermare che ogni film è uguale davanti al suo pubblico. Qualcuno, come David Lean, faceva saltare i botteghini con superproduzioni internazionali. Altri, come il sottoscritto, ottenevano lo stesso risultato offrendo per la prima volta a colori le immagini della nascita autentica di un bambino. Oppure, come il mio amico regista Larry Woolsey, con una gimmick ben studiata: come ad esempio l'uomo-formica che, durante le matinèe di Mant!, si aggirava tra il pubblico facendo urlare di gioioso terrore intere scolaresche. Dove non si arrivava con il denaro, si poteva arrivare con l'ingegno e un pò di fantasia.

Oggi non è più così. Dapprima ghettizzati nei drive-in e nei cinema della 42sima strada, i nostri film sembravano vendicati dall'avvento del video, quando una cassetta di Cleopatra Schwartz aveva il suo posto nello scaffale accanto al polpettone di Liz Taylor. Ora però il business è finito in mano a colossi come Blockbuster. E le videoteche sono diventate enormi supermercati che vendono solo i best-sellers imposti dalla pubblicità alla pigrizia degli spettatori.

I nostri film, invece sono sempre più emarginati. Ancora oggi li si chiama exploitation movies, accusandoli di essere stati fatti solo per guadagnare soldi. Che diavolo significa? Tutti i film sono fatti per guadagnare soldi, anche quelli di Fellini o Bergman. Il cosiddetto cinema d'autore non esisterebbe se non ci fosse un piccolo segmento di pubblico disposto a pagare per andarlo a vedere. E, allo stesso modo, il mio amico Russ Meyer non avrebbe battuto un chiodo in un mondo popolato da checche. O forse sì: perché quello che noi abbiamo sempre cercato di fare è stato dare al pubblico quello che il pubblico voleva. Con passione ed entusiasmo. E senza un filo di ipocrisia. Chissà, forse è proprio questo che non ci viene perdonato.

Ho conosciuto personalmente gran parte dei personaggi di cui parla il libro che avete tra le mani, e tanti altri che non sono stati nemmeno citati. Alcuni sono stati colleghi, altri concorrenti: quasi tutti sono stati, almeno per qualche tempo, miei amici e trovo ingiusto che i loro sforzi possano essere dimenticati. Già molti dei nostri film sono andati distrutti; parecchi sono ancora reperibili in cassetta, sia pure a prezzo di molta pazienza, ma il rischio dell'oblio è sempre incombente. L'ottanta per cento della nostra produzione è ignorata non solo dalle storie del cinema, ma anche dalle guide ai film in TV, incluso il Maltin. Una vera rimozione, degna del Grande Fratello, che viene perpetrata ancora oggi nelle forme più insidiose. Tutti parlano ad esempio dei classici restaurati da Martin Scorsese: ma, guarda caso, nessuno rende onore all'impegno del regista Frank Henenlotter che, oltre a realizzare capolavori come Basket Case o Brain Damage, dedica parte del suo tempo a salvare dalla distruzione le opere più rare di Eddie Wood e tanti altri oscuri capolavori.

Anche per questo, libri come Sparate sul regista! sono preziosi. Ho letto queste pagine con nostalgia. A volte con commozione. Non so se chi non ha vissuto quel periodo riuscirà a riviverne l'esaltazione attraverso la parola scritta. Ma forse qualcuno potrà rendersi conto di quello che si è perso. E magari capirà che il vero cinema non è soltanto ciò che passa in TV in prima serata, ma che esistono una quantità di strade alternative. Basta saperle cercare.


Samuel L. Bronkowitz
Catalina, Agosto 1996

 

Tutti i testi © Alberto Farina - Consulenza editoriale: Chiara Strekelj - Creazione sito: Flavia Farina