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LETTERE DA MANHATTAN - 5/Un lupo a New York (per "il Manifesto")

Nel cuore del Greenwich Village, a due isolati dal Waverly Theater, c'è un pub dall'aspetto particolarmente sinistro. L'insegna raffigura una testa di lupo con le fauci spalancate e una luna piena sullo sfondo. E il nome del locale è "The Slaughtered Lamb", l'Agnello Macellato. Suona familiare? Benvenuti nel club degli ammiratori di "Un lupo mannaro americano a Londra", cult istantaneo degli anni Ottanta che non si è limitato a ridefinire l'horror ma ha di fatto sancito la definitiva caduta degli steccati che da sempre tenevano separati i generi cinematografici.

Visto che siamo già arrivati al ventennale, il film è stato sottoposto a un accurato restauro coronato dall'uscita di una edizione DVD che si merita in pieno la fascetta "Collector's Edition". Il disco è zeppo degli ormai tradizionali contenuti extra: due nuovissime interviste al regista John Landis e al makeup artist Rick Baker (che per le trasformazioni del film meritò il primo Oscar della categoria), una featurette d'epoca sul making del film, una sequenza di raffronto fra film e storyboard, un non indimenticabile commento al film da parte dei due protagonisti e una ventina di minuti fra outtakes e riprese girate dietro le quinte. Ma la migliore sorpresa la offre il film stesso: interamente rimixata in stereo, la colonna sonora è letteralmente migliore dell'originale ascoltata al cinema due decenni fa. E la copia, da un negativo nuovo di zecca, ha una definizione video spettacolosa.

Per il lancio del DVD era stato organizzato un grande evento: al Waverly, proiezione a inviti del film restaurato alla presenza di autori e protagonisti; subito dopo, cena e festa all'Agnello Macellato. Ma il programma era fissato per la sera di martedì 11 settembre, una data entrata invece nella Storia per motivi ben meno futili. In quella mattinata convulsa di televisioni accese, di e-mail attraverso l'oceano per tranquillizzare amici e parenti, una delle prime telefonate ricevute è proprio quella di Landis, con una voce ancora più agitata di quella che gli è abituale: "Noi stiamo bene. Tu dove sei?"

A New York, Landis era arrivato la sera del 10 con la moglie Deborah Nadoolman, costumista geniale (risale a un paio di settimane la sua elezione a Presidente della Costume Designers Guild). Il primo pensiero della mattina di martedì è stato naturalmente per la figlia Rachel, che studia alla New York University e il cui dormitorio si trovava a pochi isolati dalle Torri Gemelle. La ragazza e alcuni suoi compagni hanno assistito paralizzati a tutta la tragedia: poi l'edificio, invaso dalla polvere e dai gas sprigionati dal crollo del World Trade Center, è stato evacuato e il gruppetto è riuscito nonostante lo shock ad arrivare all'albergo di John, trasformato subito in una sorta di accampamento di emergenza. Tutti attaccati convulsamente alla televisione, con la differenza che alle immagini incredibili restituite dallo schermo corrisponde anche l'odore del disastro, l'aria polverosa che quando il vento cambia attraversa in un baleno i sessanta isolati che separano l'albergo dal Financial District, dove pompieri e polizia si danno da fare per cercare di tirar fuori qualche superstite.

Ci si incontra, finalmente, solo il giorno dopo. E' un mercoledì, e verrebbe da pensare che il destino abbia voluto dare un tono beffardo alla frase "See You Next Wednesday" che percorre in modo sotterraneo tutto il cinema di Landis, incluso il "Lupo mannaro". Non è proprio il momento di scherzare, ma non è nemmeno facile capire come sia lecito sentirsi: devastati da una tragedia di cui lì per lì ancora non si conosce il costo in vite umane (il prezzo pagato quella mattina, ma anche tutti gli interessi composti che prevedibilmente seguiranno non appena l'America si riprenderà dal colpo e deciderà di reagire), ma anche sollevati di sapersi interi, vagamente eccitati come ogni volta che la Storia ti passa accanto, e con il senso di colpa per quel sollievo e per quell'eccitazione.

Con gli aeroporti tutti bloccati, e tutti gli appuntamenti dei giorni successivi annullati, la settimana si srotola come sospesa in una bolla temporale. Impossibile non parlare delle Torri distrutte, ma impossibile anche non parlare d'altro. Fra una mattina spesa in fila per donare il sangue e una sera a cena in un ristorante semideserto ci si sente inadeguati ad affrontare la realtà della situazione: John commenta che sembra di "suonare il violino mentre Roma brucia", ma che la vita debba continuare è una verità banale. Si sorride, quindi, e si scherza come si può sulla vita, l'universo e tutto quanto; fingendo di essere più forti con qualche battuta di finto cinismo, anche se poi basta leggere sul giornale le ultime mail mandate a un amico da uno dei condannati dei piani più alti, e gli occhiali si appannano anche al regista più iconoclasta.

E allora si parla molto anche di cinema, argomento-rifugio che dà l'illusione di parlare d'altro anche se poi si torna sempre lì: del fatto paradossale che in questi giorni esce "O" -girato qualche anno fa e rimasto bloccato a causa del massacro di Columbine- mentre alcuni film d'azione entreranno nei prossimi giorni nel limbo incerto del non distribuito; di "Spiderman", quasi pronto anche se Sam Raimi ha deciso di rimpolparlo aggiungere una ulteriore scena d'azione (e ancora non si è sparsa la notizia della decisione di ritirare il trailer, in cui compaiono le Torri: una rimozione che rischia di far sentire l'assenza ancora di più, visto che già oggi sembra di vederle dappertutto con la coda dell'occhio, come una persona cara scomparsa); del nuovo film di Costa Gavras, che di Landis è da tempo un amico fra i più cari (l'altro era Michael Ritchie, scomparso lo scorso aprile), in cui si affronta il mancato intervento del Papa a favore di ebrei e zingari durante seconda Guerra Mondiale.

Qualche giorno dopo la tragedia, quando riaprono timidamente i cinema e i teatri, si coglie al balzo l'occasione di distrarsi utilizzando i biglietti prenotati un mese fa da John per lo spettacolo off-Broadway "Bat Boy - the Musical". Nonostante la serata fosse da tempo esauritissima la sala è per due terzi vuota. Non lontano in spirito dal celebrato "Little Shop of Horrors" (la cui trasposizione cinematografica fu un progetto di Landis prima di passare nelle mani dell'amico Frank Oz) lo spettacolo è basato su una serie di articoli pubblicati dal settimanale cult "Weekly World News", specializzato in notizie inventate di sana pianta: lo show vive di un umorismo estremo e sicuramente non per tutti i palati -vacche decapitate, topi spremuti come limoni fino a una feroce presa in giro del musical Disney "The Lion King" in cui decine di peluche si abbandonano a un'orgia interbestiale. Ma ovviamente è per questo che lo si va a vedere e la defezione di una parte così grande della platea non può lasciare indifferenti. Alla fine della rappresentazione, quindi, l'intera compagnia accetta solo il primo giro di applausi: poi uno degli attori ringrazia i presenti di avere, con le risate, contribuito a sollevare lo spirito di tutto il cast, auspicando che lo spettacolo sia riuscito a sua volta a distrarci per un paio d'ore. Si finisce con l'invito a tutta la sala di alzarsi in piedi per cantare insieme "God Bless America". Una scelta curiosa, commenta John uscendo, visto che l'inno americano sarebbe "The Star Spangled Banner": ma forse è giusto che in un teatro si preferisca una canzone tratta da un musical di Irving Berlin.

Tornando a casa fra poliziotti sempre più onnipresenti e strade chiuse al traffico e talvolta anche ai pedoni, un mendicante nero ci chiede un'offerta. "For the United States of America", dice senza la minima esitazione, e John -pur tirando fuori qualche dollaro- gli chiede di non raccontare balle del genere. Il tipo, prontissimo, ribatte: "OK, so how about it's for the United Negro Pizza Fun"? Ci si allontana ridendo: forse l'incantesimo si è spezzato. Forse a quest'ora si può cominciare a tornare a casa.

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Tutti i testi © Alberto Farina